Sintetizzare in pochi titoli la storia di una cinematografia nazionale è un’operazione difficile, se non impossibile. Abbiamo scelto quindi di concentrarci unicamente sugli ultimi due decenni, e in particolare su alcuni autori che hanno saputo proporci una visione originale e innovativa del linguaggio cinematografico. Il Regno Unito ha infatti avuto grande influenza nello sviluppo tecnologico, commerciale e artistico della storia del cinema, anche se nonostante una serie di produzioni inglesi di successo, l’industria cinematografica è da sempre caratterizzata da un dibattito aperto circa la sua identità, a causa delle problematiche economiche e culturali che la contraddistinguono e delle forti influenze del cinema statunitense ed europeo.
Tratto dal romanzo "A Room with a View" di Edward Morgan Forster è la storia di Lucy, una giovane inglese appartenente a una nobile famiglia dagli austeri costumi vittoriani, che nel 1907 arriva in Italia accompagnata dalla rigida cugina Charlotte. A Firenze prende alloggio alla pensione Bartolini, dove al contrario di quanto pattuito non può beneficiare di una «camera con vista» sull’Arno. A cena gli Emerson, due ospiti inglesi della pensione, offrono a Lucy di poter scambiare le camere per esaudire il suo desiderio. L’incontro con il giovane George Emerson, di abitudini più libere, incontrollato e un po’ stravagante, scombina la vita piuttosto rigorosa di Lucy. George offre un parametro di confronto con le rigide e impostate usanze vittoriane della ragazza sconvolgendone le riservatissime vicende sentimentali che seguiranno al suo rientro in Inghilterra. Un film con uno straordinario cast di attori in grado di esprimere squisita eleganza e sottile ironia. La sceneggiatura di Ruth Prawer Jhabvala, nota scrittrice e fedele collaboratrice di Ivory fin dagli anni ‘60, riesce a trasportare sullo schermo tutta la leggerezza del capolavoro di Forster. Una delicata storia d’amore incorniciata da incantevoli panorami di Firenze e della Toscana e dai suggestivi paesaggi della campagna inglese, illuminati dalla magnifica fotografia di Tony Pierce-Roberts. Una passione che esplode accompagnata dall’aria meravigliosa "O mio babbino caro" dell’opera "Gianni Schicchi" di Giacomo Puccini. Un film elegante, definizione che si addice particolarmente all’intera cinematografia di James Ivory che con questa pellicola vince tre premi Oscar: come "Miglior sceneggiatura non originale", "Miglior scenografia" e "Migliori costumi"; e due David di Donatello: come "Miglior film straniero", e "Migliore regista straniero". Questa brillante commedia romantica vede come protagonisti l’impacciato ragazzo inglese Charles, il suo «variopinto» gruppo di amici e Carrie la bella americana di cui s’innamora. Le vicende si srotolano in contesti ben precisi: quattro cerimonie nuziali e un rito funebre, come si può palesemente dedurre dal titolo. Il regista Mike Newell ha saputo donare a ciascun personaggio una propria personalità ben definita: dalla profonda umanità di un omosessuale alla sincerità sfacciata di un sordomuto, tutti riescono a trovare un posto da «protagonista» nella storia. Hugh Grant, reso famoso proprio dal personaggio di Charles, dovrebbe essere l’attore centrale, colui al quale tutto accade, ma in realtà rappresenta il punto di osservazione dei continui eventi che si susseguono. Il successo di questa produzione è senza dubbio il risultato di un’attenta sceneggiatura, mai banale e basata sulla «concezione dell’opposto»: Charles odia il matrimonio ma è presente a tutte le funzioni; la sorella di Charles, un tipo un po’ bruttino, si «accaparra» un uomo da copertina. A queste contraddizioni si aggiunge un pizzico di assurdo che con leggerezza dona un’atmosfera frizzante alle scene. In particolare, il gruppo di amici di Charles si dimostra una compagnia di goliardi che sa come divertirsi e che, al tempo stesso, è legata da una profonda amicizia. Il film non è solamente divertente, ma mostra allo spettatore anche sentimenti di tristezza e di nostalgia. Basti pensare al toccante momento del funerale quando uno degli amici di Charles legge una delicatissima poesia di W.H. Auden "Funeral Blues". Le sue parole risuonano nella chiesa addobbata a lutto, tanto quanto le risate si disperdono nei festosi banchetti di nozze. Quattro matrimoni e un funerale è stato giudicato come uno dei film meglio riusciti della produzione britannica e ha consacrato l’attore Hugh Grant quale «rappresentante» di questo genere di commedia. In questa pellicola relativamente recente di Ken Loach, già noto per il suo impegno cinematografico nel campo delle tematiche politiche e sociali, la Guerra Civile viene narrata attraverso le vicende di un giovane volontario britannico, David Carr, che lascia il proprio paese per raggiungere la Spagna e combattere il fascismo unendosi a un reparto di miliziani del P.O.U.M. (Partito Operaio di Unificazione Marxista). Qui David ha modo di condividere gli stessi ideali rivoluzionari della «guerra di popolo» della Repubblica spagnola e di sperimentarne i disagi e le contraddizioni che ne decretarono il fallimento nel confronto con il blocco reazionario, conservatore e clericale franchista. A parte il celeberrimo film "Per chi suona la campana" girato nel 1943 da Sam Wood e interpretato da Gary Cooper e Ingrid Bergman, non sono stati molti i film dedicati a un evento così cruciale della storia contemporanea come la Guerra Civile Spagnola. L’opera di Loach fotografa in maniera molto realistica quelle che erano le motivazioni e le speranze che sostenevano la lotta dei volontari delle «Brigate Internazionali» in terra spagnola, ma con sguardo critico analizza anche i limiti e le utopie che spesso condussero il movimento delle sinistre in aperta collisione con le diverse anime della Repubblica: quella democratica istituzionale, quella dell’anarco-sindacalismo, quella del comunismo dirigista, quella del populismo eversivo. È in questo ambito che si consuma la disillusione e il dramma personale del protagonista che, dopo lo scioglimento forzato della propria unità sotto la diretta minaccia delle armi dell’esercito governativo, è costretto ad abbandonare la lotta e a ritornare in Inghilterra. Intensa e struggente l’interpretazione delle protagoniste femminili del racconto: rendono un giusto tributo a tutte quelle donne, le famose «pasionarie», che si batterono con coraggio e con determinazione a fianco dei propri compagni, condividendone (in misura a volte assai più tragica) gli stessi sacrifici e le stesse sofferenze. La morte improvvisa della Principessa Diana, nel 1997, lascia costernato il popolo britannico e attonita la famiglia reale. La tragedia non manca di coinvolgere, emotivamente e politicamente, il governo inglese e il neoeletto Primo Ministro Tony Blair. La separazione dal Principe Carlo, la controversa storia con Dodi Al Fayed, l’incidente mortale che spegne Diana in un tunnel di Parigi mettono a dura prova il protocollo di corte. Elisabetta II, erede della tradizione vittoriana, incapace di gestire la vita pubblica di Diana, mostra un identico imbarazzo nel gestirne la dipartita. Il rifiuto della Regina di esibire la bandiera a mezz’asta sopra i salotti di Buckingham Palace, mette a dura prova la sua popolarità. L’intervento di Blair e la volontà della Regina di comprendere e contenere la reazione degli inglesi al lutto, condurranno ai funerali pubblici di Diana e al ritrovato consenso di Sua Altezza Reale. The Queen è una lucida analisi sul potere che racconta i 7 giorni tra l’improvvisa morte di Lady Diana e i suoi funerali a Londra. Il film mostra come due istituzioni – la monarchia e il governo – vengono totalmente spiazzate dall’impatto emotivo e mediatico provocato della tragedia. Un capolavoro di equilibrismo politico, di ironia e di analisi antropologica su un’istituzione, la monarchia britannica, che noi conosciamo solo nei suoi aspetti rituali e scandalistici, ma per la quale il popolo d’Inghilterra, di Scozia e del Galles prova rispetto ed affetto. Il regista inglese fa incontrare e dialogare tra fiction e vere immagini di repertorio, la «principessa del popolo», amata e adorata perchè sempre esibita e la Regina da sempre nobilmente riluttante all’esibizione del sentimento, lasciando intuire sia la bellezza della modernità di Diana sia il conservatorismo senza tempo della famiglia reale inglese. Una mirabile squadra di attori con la bravissima Helen Mirren, che con la sua interpretazione puntuale e commovente della Regina, ha vinto la Coppa Volpi per la Migliore interpretazione femminile a Venezia. Robbie, Rhino, Albert e Mo sono tre ragazzi e una ragazza della periferia misera di Glasgow, segnati da un passato di violenza e di piccola criminalita?, che passano dalla prigione a una condanna ai lavori sociali. Quando Robbie, diventato padre, decide di cambiare vita, scopre di avere un talento naturale per la degustazione del whisky. Introdotto da un amico nell’ambiente di ricchi collezionisti, si accorge della loro disponibilità a pagare qualsiasi cifra per comprare una bottiglia della marca più rara. È così che gli viene un’idea geniale: mettere in atto un colpo del tutto anomalo e allegramente ai limiti della legalità che però potrebbe offrire a lui e ai suoi amici un futuro sereno... Ken Loach torna a riflettere sulla commedia umana, arte nella quale è indiscutibilmente maestro e con il fido sceneggiatore Paul Laverty costruisce un universo di tipi strambi e diversi, privilegiando la speranza sulla sconfitta, la voglia di reinserimento sociale sulla ribellione rabbiosa. Sceglie lo scenario della Glasgow che ama e ci offre il ritratto di uomini segnati dalla vita etichettati come irrecuperabili in una società che conta più sulla ricaduta del delinquente, per poterlo allontanare a lungo dalla comunità, che non sul suo redimersi. Loach invece è convinto che la possibilità di un riscatto sociale vada più che mai offerta a tutti. Utilizza come leva narrativa il momento cruciale della vita di un essere umano: la nascita di un figlio. Decidere di averlo nonostante tutto significa credere in un futuro migliore. Un’originale commedia in cui il whisky finisce con il divenire strumento di riscatto in una storia che unisce con grande equilibrio dramma e sorriso. «La parte degli angeli» corrisponde a quel due per cento di whisky che durante ogni anno di stagionatura evapora dai barili in legno, e che, come si dice nelle Highlands, si bevono gli angeli. INVITO EVENTO E SCHEDA FILM |